Il tema della coesistenza in capo allo stesso soggetto del ruolo di socio e lavoratore subordinato nella medesima realtà ha posto storicamente molti interrogativi.
In particolare, il fulcro attorno a cui ruota l’intera tematica è quello della possibilità che permanga il vincolo della subordinazione a fronte di un soggetto che contestualmente è parte della compagine sociale.
In questo contributo si darà conto delle profonde differenze che sussistono in ordine a questa tematica fra società di persone e società di capitali, ma anche della peculiare vicenda del c.d. socio di cooperativa.
Preliminarmente, è però necessario chiarire la distinzione fra socio/lavoratore dipendente e socio d’opera.
In estrema sintesi, mentre nel primo caso siamo innanzi ad un soggetto che è un lavoratore subordinato ma è anche e contemporaneamente socio, nel caso del socio d’opera la prestazione lavorativa non viene resa in forza di un con-tratto di lavoro, ma è prevista dal contratto sociale.
In quest’ultimo caso non saremo quindi in presenza di un rapporto di lavoro subordinato e, conseguentemente, non
- sarà un tema di sottoposizione del prestatore al potere direttivo dell’organo sociale, così come i compensi da lui percepiti non saranno assimilabili alla retribuzione.
Società di persone
Nell’ambito della società di persone, la compatibilità fra i diritti e le prerogative del socio e del lavoratore subordinato può sussistere solo laddove ricorrano determinate condizioni.
In primo luogo, infatti, occorre che le mansioni disimpegnate come lavoratore subordinato non coincidano con quelle eventualmente svolte dal soggetto nella sua qualità di socio/amministratore.
Allo stesso tempo il socio che presti la propria attività di lavoro deve anche svolgerla sotto il controllo e la direzione di un altro socio.
In altre parole, occorre che siano verificabili nel rapporto di lavoro del socio gli elementi tipici della subordinazione.
Sotto questo profilo non possono che essere richiamati i criteri identificativi della subordinazione e gli indici sussidiari della stessa così come elaborati nel corso del tempo dalla giurisprudenza. A tal proposito la giurisprudenza ha chiarito che il potere direttivo deve estrinsecarsi con indicazioni specifiche non essendo sufficienti le mere indica-zioni di carattere programmatico.
La Suprema Corte ha avuto modo, con riferimento a questa fattispecie, di pronunciarsi in ordine all’ipotesi in cui il socio lavoratore compia alcuni atti gestori o partecipi alle scelte della società affermando testualmente che:
«Nelle società di persone è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la società ed uno dei soci purché ricorrano le seguenti condizioni: a) che la prestazione non integri un conferimento previsto dal contratto sociale; b) che il socio presti la sua attività lavorativa sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di supremazia. Il compimento di atti di gestione o a partecipazione alle scelte più o meno importanti per la vita della società non è, in linea di principio, incompatibile con la detta configurabilità sicché anche quando esse ricorrano è comunque necessario verificare la sussistenza delle suddette due condizioni» (Cass. civ., sez. lav., 11 gennaio 1999 n. 216; in questo senso più di recente Cass. 21 giugno 2010 n. 14906).
Società in accomandita
Di particolare interesse è l’ipotesi in cui il tema della compatibilità si ponga nell’ambito di un rapporto con una società in accomandita.
In questo caso, come noto, l’elemento peculiare è quello della doppia categoria di soci previsti da tale tipologia contrattuale, i soci accomandanti e accomandatari.
Con riferimento alla compatibilità fra socio accomandante e rapporto di lavoro subordinato, ferma restando la compatibilità in astratto, varranno le medesime regole già previste per il socio della società di persone in cui occorrerà la verifica in concreto della sussistenza dei due requisiti di cui si è detto.
Su questo punto la Suprema Corte ha affermato espressamente che:
«Con riguardo alle società di persone, è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la società e uno dei soci, sempreché la prestazione del socio non integri un conferimento d’opera, pre-visto dallo statuto e che l’attività lavorativa sia prestata sotto il controllo gerarchico di un altro socio, munito di poteri di supremazia, egualmente previsti dallo statuto (fattispecie relativa all’opera prestata da un socio accomandante)» (Cass. civ., sez., lav., 22 gennaio 2020 n. 1396).
Diversa è, invece, la posizione del socio accomandatario, in quanto gli deve essere conferito il potere di amministrazione della società e, conseguentemente, ciò rende incompatibile l’istaurazione di un rapporto di lavoro subordinato in capo al medesimo soggetto.
Sul punto la ragione dell’incompatibilità risiede, appunto, nella difficoltà di concepire la coesistenza in un unico soggetto delle funzioni di esecutore delle volontà della società (in qualità di lavoratore subordinato) e quella di soggetto che quella stessa volontà l’ha determinata.
Compatibilità nelle società di capitali
Del tutto diversa è la visione nella società di capitali in ragione della sussistenza in capo a quest’ultima di una personalità giuridica autonoma rispetto a quella dei soci. In questo caso si ha una netta distinzione fra la posizione del socio e quella della società sia sotto il profilo giuridico che economico.
In ragione di questa distinzione, la posizione del socio e quella del lavoratore subordinato sono di regola considerate compatibili, al punto che nelle società per azioni è espressamente prevista la possibilità per via statutaria, di emettere particolari categorie di azioni ai dipendenti della società o anche di società control-late (art. 2349 c.c.).
In giurisprudenza è consolidato il principio per cui:
«La qualità di socio di una società di capitali non esclude la sussistenza di un rapporto di lavoro con la medesima società fermo restando che incombe sul deducente l’obbligo di provare il requisito della subordinazione, ossia il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, caratterizzato dalla emanazione di ordini specifici oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e di controllo della esecuzione delle prestazioni lavorative» (Cass. civ., sez. lav., 19 gennaio 2021 n. 813).
Se quello appena descritto è il quadro fisiologico nell’ambito del quale è ammissibile la coesistenza della figura del lavoratore subordinato e quella di socio della società di capitali, sussistono delle particolari condizioni al ricorrere delle quali tale compatibilità è esclusa.
Tali ipotesi coincidono con particolari vicende nelle quali si crea quella sovrapposizione soggettiva fra colui che esprime la volontà e l’esecutore della stessa.
- stata ritenuta, infatti, incompatibile la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in capo al socio laddove:
- la società di capitali sia unipersonale;
- il socio lavoratore sia qualificabile come un socio “sovrano” ovvero colui il quale, in ragione della propria partecipazione rilevante al capitale sociale, abbia la maggioranza assembleare o possa condizionare la nomina di amministratori e sindaci o ancora possa condizionare l’andamento dell’intera società, anche sotto il profilo giuslavoristico, esercitando i poteri direttivo, organizzativo e disciplinare, tipici del datore di lavoro;
- sia presente il c.d. “socio tiranno” che può disporre della maggioranza del capitale sociale, rendendo di fatto la società priva della propria personalità giuridica e trasformandola in un bene personale che persegue interessi del socio, anche diversi da quelli che dovrebbero essere propri della persona giuridica.
In questo senso si è espresso anche l’Ente previdenziale nel 2019 ove ha testualmente affermato che:
«La configurabilità del rapporto di lavoro subordinato è, inoltre, da escludere con riferimento all’unico socio, giacché la concentrazione della proprietà delle azioni nelle mani di una sola persona esclude – nonostante l’esistenza della società come distinto soggetto giuridico – l’effettiva soggezione del socio unico alle direttive di un organo societario. Parimenti, il socio che abbia assunto di fatto nell’ambito della società l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione, tanto da risultare “sovrano” della società stessa, non può assumere contemporaneamente anche la diversa figura di lavoratore subordinato (cfr. Cass. civ., sez. lav., n. 21759/2004) essendo esclusa la possibilità di ricollegare ad una volontà “sociale” distinta la costituzione e gestione del rapporto di lavoro» (Inps, mess. 17 settembre 2019, n. 3359).
Da ultimo occorre dar conto della figura del socio di maggioranza rispetto al quale, diversamente dalle ipotesi sopra prospettate, occorrerà verificare in concreto se tale condizione faccia venire meno la distinzione soggettiva fra società e socio.
Cooperative: vincolo associativo e rapporto di lavoro
Una distinta e peculiare ipotesi è quella del socio di cooperativa, le cui vicende sono disciplinate dalla legge n. 142/ 2001 così come modificata dalla legge n. 30/2003.
Prima di procedere all’analisi della disciplina vigente e al fine di meglio comprendere l’impatto della stessa sulla relazione fra il rapporto associativo e quello di lavoro è opportuno dare conto del contesto antecedente al 2001. Prima del 2001, la prestazione lavorativa resa dal socio di cooperativa era giuridicamente inquadrata alla stregua di un’obbligazione posta in capo al soggetto in forza del solo vincolo associativo.
In tale prospettiva si considerava la prestazione di lavoro come del tutto ancillare rispetto al rapporto associativo. Da ciò discendeva – sebbene non fosse preclusa in astratto la conclusione di un contratto di lavoro subordinato fra il socio e la cooperativa – la prassi di ritenere superflua la predisposizione di un autonomo contratto di lavoro, atteso che la prestazione lavorativa era, in ogni caso, da ritenersi parte dell’adempimento degli obblighi discendenti in capo al socio dal vincolo associativo.
In altre parole, prima dell’entrata in vigore della legge n. 142/ 2001 si riteneva che la prestazione lavorativa del socio – evidentemente volta al perseguimento dei fini istituzionali della cooperativa – fosse riconducibile nell’alveo del rap-porto associativo, escludendosi, sebbene non fosse preclusa la possibilità, così qualsivoglia autonoma rilevanza del rapporto di lavoro.
In questo senso anche l’Inps, il quale nel messaggio 7 giugno 2007, n. 15031, affermava che:
«Prima dell’entrata in vigore della legge n. 142/2001, l’attività lavorativa svolta dai soci di cooperativa, volta al perseguimento di fini istituzionali della società, non si riteneva assimilabile ad un rapporto di lavoro, ma solo ad un rapporto meramente associativo».
Questa impostazione era, peraltro, coerente con la definizione di socio lavoratore fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza 12 febbraio 1996, n. 30, secondo la quale
«A differenza del prestatore di lavoro definito dall’art. 2094 cod. civ., il socio lavoratore di una cooperativa di lavoro è vincolato da un contratto che, se da un lato lo obbliga a una prestazione continuativa di lavoro in stato di subordinazione rispetto alla società, dall’altro lo rende partecipe dello scopo dell’impresa collettiva e corrispondentemente gli attribuisce poteri e diritti di concorrere alla formazione della volontà della società, di controllo sulla gestione sociale e infine il diritto a una quota degli utili».
Ferma restando questa impostazione di fondo il Legislatore, anche prima del 2001, aveva inteso estendere alcune specifiche tutele di legge, proprie del rapporto di lavoro subordinato, anche al socio prestatore di lavoro. In particolare, il Legislatore aveva esteso al socio lavoratore l’applicazione delle tutele in materia contributiva ed antinfortunistica, la disciplina limitativa in materia di orario di lavoro, le norme sulla Cigs, la possibilità di accedere alle liste di mobilità e la disciplina sui licenziamenti collettivi. In ultima analisi, prima del 2001 il rapporto del socio lavoratore era sostanzialmente disciplinato dalle norme di diritto societario, fatta salva l’estensione di alcune tutele proprie del diritto del lavoro.
In questo quadro normativo si colloca l’emanazione della legge n. 142/2001, che nasceva per l’appunto con il preciso intendimento di fornire una disciplina organica al rapporto del socio di cooperativa, così come denotato dallo stesso titolo della legge: «revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore».
Proprio con riferimento al rapporto esistente fra il vincolo associativo e quello di lavoro, l’art. 1, c. 3, legge n. 142 recitava – nella formulazione originaria del 2001 (e cioè prima dell’intervento della novella del 2003) – che:
«Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali. Dall’instaurazione dei predetti rapporti associativi e di lavoro in qualsiasi forma derivano i relativi effetti di natura fiscale e previdenziale e tutti gli altri effetti giuridici rispettivamente previsti dalla presente legge, nonché, in quanto compatibili con la posizione del socio lavoratore, da altre leggi o da qualsiasi altra fonte».
Tale formulazione autorizzava a ritenere, sulla base della qualificazione del rapporto di lavoro come “ulteriore e distinto”, che in capo al socio lavoratore fossero riscontrabili, in rapporto di parità, due posizioni giuridiche indi-pendenti e distinte: quella associativa e quella lavorativa. Tale conclusione era, peraltro, suffragata anche dall’originaria formulazione del c. 2 del successivo art. 5 della legge, che, in materia di rito applicabile alle controversie del socio lavoratore, stabiliva:
«Le controversie relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma 3 dell’articolo 1 rientrano nella competenza funzionale del giudice del lavoro; per il procedimento, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile. In caso di controversie sui rapporti di lavoro tra i soci lavoratori e le cooperative, si applicano le procedure di conciliazione e arbitrato irrituale previste dai decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80, e successive modificazioni, e 29 ottobre 1998, n. 387. Restano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto associativo».
La citata norma, delegando al Giudice del Lavoro le controversie relative al rapporto di lavoro del socio di Cooperativa, confermava – anche dal punto di vista processuale – la netta dicotomia esistente tra quest’ultimo e il rapporto associativo. Tale aspetto processuale è stato oggi oggetto di un’ulteriore modifica ad opera della riforma c.d. “Cartabia” del processo civile, che vede con l’art. 441 ter c.p.c. un ampliamento della sfera giurisdizionale del Giudice del Lavoro anche alle vicende che attengono la cessazione del rapporto anche associativo.
Inoltre, a conferma del fatto che il Legislatore del 2001 intendeva porre su piani paralleli la prestazione lavorativa e quella associativa, si ricorda che l’art. 2, legge n. 142/2001 prevedeva che al socio lavoratore si applicasse integralmente lo Statuto dei lavoratori – esclusa la tutela prevista dall’art. 18 – «ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo».
In tale ottica, appariva quindi chiara la distinzione tra i due diversi rapporti che si ponevano su un piano paritetico.
Nel 2003, con l’emanazione della legge n. 30, il Legislatore
- intervenuto a modificare radicalmente la disciplina posta dalla legge n. 142/ 2001, nel senso di “restituire” il primato al rapporto associativo rispetto a quello di lavoro.
In particolare, l’art. 9, legge n. 30/2003 ha abrogato il termine “distinto” dall’art. 1, c. 3, legge n. 142/2001.
In altre parole, si è transitati da un sistema in cui il rapporto di lavoro era distinto e paritetico rispetto a quello mutuali-stico ad uno in cui, sebbene ulteriore, il rapporto di lavoro torna a subordinato rispetto al vincolo associativo.
In questo contesto, è stato affermato dalla migliore dottrina che:
«il contratto con cui si applica lo scambio mutualistico è necessariamente strumentale rispetto a quello associativo il cui scopo viene perseguito attraverso la prestazione di lavoro e dunque con le modifiche apportate alla norma da parte dell’art. 9 legge n. 30/ 2003 non viene fatto altro che sottolineare questa funzione preminente del rapporto societario, eliminando ogni possibile ambiguità. Gli effetti del rapporto societario si riverbererebbero dunque necessariamente sul rapporto di lavoro che acquisisce così una funzione “ancillare” rispetto al primo» (Vedani, Le cooperative di lavoro profili lavoristici societari e tributari, Ipsoa, 2007, 109).
Analogamente si era espressa anche la circolare ministeriale 18 marzo 2004, n. 10 e, da ultimo, il messaggio dell’Inps 7 giugno 2007, n. 15031 che ha affermato:
«La legge 142/2001 all’articolo 1, comma 3, ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo concetto di mutualità, che discende dalla separazione dello status di lavoratore da quello di socio, infatti la prestazione di lavoro è oggetto di un rapporto giuridico totalmente autonomo da quello mutualistico. Le recenti abrogazioni apportate dalla legge 30/2003 non contribuiscono ad eliminare la predetta distinzione, in quanto la prestazione di lavoro non può essere identificata nella prestazione mutualistica, la prima è strumentale al raggiungimento della mutualità medesima».
In questo contesto, appare coerente la modifica, da parte della novella del 2003, dell’art. 5, c. 2, legge n. 142/2001, che nell’attuale formulazione recita:
«Il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli articoli 2526 (2532) e 2527 (2533) del codice civile. Le controversie tra socio e cooperativa relative alla presta-zione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario».
Tale ultima previsione appare però mitigata dal punto di vista processuale dall’introduzione del già citato art. 441 ter c.p.c. a norma del quale: «Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative sono assoggettate alle norme di cui agli articoli 409 e seguenti e, in tali casi, il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte.
Il giudice del lavoro decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo, altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo».
In definitiva, nel vigore dell’attuale disciplina, tra i due rapporti (associativo e di lavoro) discendenti in capo al socio della cooperativa si riscontra un collegamento negoziale tipico, nell’ambito del quale il rapporto di lavoro appare ancillare ed inscindibilmente connesso al rapporto associativo.
Sul tema della compatibilità con il rapporto di lavoro subordinato si è posta la questione circa la figura del socio che svolga la carica di presidente della cooperativa. Sul punto l’Inps con il messaggio 8 giugno 2011, n. 12441 chiarisce che vi è compatibilità, ma a condizione che il potere deliberativo sia affidato ad un organo diverso e che il Presidente svolga mansioni estranee al rapporto organico con i caratteri tipi della subordinazione, ammettendo quest’ultimo requisito anche in forma attenuata laddove sia instaurato un rapporto di natura dirigenziale.